“Tre anni in compagnia di un imbalsamatore”
Intervista a Gabriele Di Fronzo, autore del romanzo Il grande animale.
C’è un romanzo d’esordio che sta facendo parlare di sé, un romanzo gotico costruito attorno alla figura del tassidermista Francesco Colloneve, che imbalsama animali convinto che “solo così, ciò che altrimenti subito scomparirebbe, rimarrà nostro per sempre”. L’autore, il torinese Gabriele Di Fronzo, ha il pregio di raccontare il rapporto con la perdita e il delirio di eternità del protagonista da un’originale prospettiva, aiutato da una lingua allo stesso tempo distaccata e precisa, chirurgica. Gli abbiamo rivolto alcune domande.
In che modo e in che tempi è nato Il grande animale?
Tre anni, grossomodo è questa la distanza che mi separa dal primo momento in cui iniziai a pensarci, a parlarne con chi mi era vicino. Quando mi accorsi che sarebbe stato un progetto su cui avrei voluto stancarmi, allora decisi che c’era la ragione necessaria perché mi ci dedicassi. Ho dunque fatto pulizia sul tavolo da tutto il resto, non che ci fosse granché ma era fondamentale che null’altro mi spingesse altrove, e ho individuato il Museo di Scienze Naturali come il luogo dove avrei fatto le prime mosse: lì ho raccolto manuali e mi sono fatto compagnia con le centinaia di animali imbalsamati della sua collezione permanente. Stambecchi, pappagalli, leoni, gnu. Tra quei corridoi Emilio Salgari, davanti a tutti queste creature esotici, ha cercato spunto per i suoi romanzi. E solo dopo una lunga fase di reperimento delle nozioni che sapevo mi sarebbero state utili, ho iniziato a scrivere. Avevo allora diversi quadernetti con appunti e spunti, forse sparsi forse no, imbeccate che avrei provato a seguire. La scrittura è durata credo sei mesi, ma non ne sono così sicuro, magari la metà o magari il doppio: è così complicato assegnare a un giorno l’etichetta di primo giorno e a un altro quella di ultimo giorno. O forse è solo la mia memoria a essere gracile. Poi c’è stato il periodo delle revisioni. Uguale e contrario a quello di studio che ha preceduto la scrittura. Tre anni in compagnia di un imbalsamatore, quasi sempre, pressoché ovunque.
Forse il principale pregio del romanzo è la prosa fredda, autoptica: come sei arrivato ad un così mirabile risultato?
Rispettando il personaggio che ho creato. Imponendomi rigore e minutezza, come mi fossi calato dentro una specie di mimesi quasi attoriale. Postura sentimentale e idioletto a braccetto, indissolubili. Ogni aspetto, dalle scelte lessicali a quelle della morfologia della frase, dal modo in cui il mio protagonista avrebbe reagito a una determinata situazione alle ragioni che avrebbe addotto per compiere una speciale azione: tutto, correndo serenamente il rischio di essere estremo, cercando la radicalità anzi, perché ogni aspetto alla mia portata fosse necessario e intonato.
Il grande animale è uno di quei romanzi tanto brevi quanto densi, di una densità claustrofobica e soffocante. Hai avuto, mentre scrivevi, la percezione di questo possibile effetto sul lettore?
L’ho avuta io, mi auspicavo potessero patirla anche i lettori. Il miglior augurio che potessi far loro. Sempre che loro fossero poi stati tanto disponibili da farsene attrarre. Senza l’oppressione coercitiva delle mura, e prima ancora della caverna che è la testa e coordinata a questa l’ugola di Francesco Colloneve, l’esito del libro sarebbe un altro, spuntato, fiacco. Tutto avrebbe invece, nel romanzo, dovuto fare un bell’attrito.
Immagina di sottoporre Francesco Colloneve ad un test di personalità. Cosa verrebbe fuori?
Una persona sana solo a detta di se stessa. In compagnia di molti di noi, quindi.
Il rapporto padre-figlio è centrale. Avevi in mente sin dall’inizio si sviluppare il romanzo attorno a questo tema?
Certamente, sì. I confini della storia sono l’ingresso di Francesco Colloneve nella casa del padre e il momento in cui quest’ultimo muore. Nient’altro fa da recinto dentro cui si svolge la vicenda e dal quale, neppure in seguito a quest’ultimo evento, che anche potrebbe liberarlo una volta per tutte dall’ombra di pulviscolo scurissimo del genitore, il protagonista fugge.
Qual è il “patrimonio”, per dirla con Philip Roth, che Francesco eredita dalla figura paterna?
Il padre è l’impositore di un’educazione che è una gabbia normativa e performativa. Fa spavento, sì, ma è anche un’ancora che gli dà una fermezza addirittura statuaria che lui reputa di poter conferire al figlio in crescita. Eppure non è da lì che fiorisce la ricchezza data in dote. Tutt’altro. È invece la cura con cui Francesco Colloneve si dedica al suo genitore morente, la risorsa gentile che questi si ritrova in mano. Strumento tra i suoi strumenti abituali, solo un po’ meno seghettato, una sapienza pratica e un’ipotesi di cuore inedita.
Ci sono romanzi che hanno raccontato il rapporto padre-figlio in un modo che ti è sembrato particolarmente credibile ed efficace?
Lettera al padre di Franz Kafka, la prima parte de L’invenzione della solitudine di Paul Auster, L’origine di Botho Strauss, L’orco di Jacques Chessex, il racconto “La punta” contenuto nella raccolta Il suo vero nome di Charles D’Ambrosio, “Il cervello di mio padre” di Jonathan Franzen in Come stare soli, il fumetto Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra di Chris Ware, Altare per la madre di Ferdinando Camon, Proleterka di Fleur Jaeggy, Santo mostro di Allan Gurganus, perlomeno questi: libri così distanti, tant’è.
Il grande animale è il tuo primo romanzo a tutti gli effetti o in precedenza c’erano stati altri esperimenti narrativi che non sono andati a buon fine?
Questo è il primo romanzo che abbia voluto far leggere da altri che non fossi io, il primo che ho ritenuto concluso e il primo che ho chiesto di mia spontanea volontà, e responsabilmente, venisse valutato per un’eventuale pubblicazione. Ci sono stati tentativi monchi in precedenza, cui non mi legai allora e non mi sento legato adesso, guastati da una sprovvedutezza spiacevole – e non nel senso buono, talvolta buonissimo del termine.
C’è un romanzo che più di tutti gli altri ha contribuito a fare di te uno scrittore?
Ogni libro, credo, si incardina sui libri precedenti, ma in un modo così sotterraneo, e invisibile per me, che so quanto poco sono bravo a riconoscere le loro influenze. Il contagio dei romanzi, dei saggi, delle poesie che ho letto prima o durante la scrittura de Il grande animale è avvenuto a mia insaputa, insomma. Magari persino mio malgrado.
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