Musica e letteratura: quali sono i libri preferiti di gianCarlo Onorato?

 
Una figura mitica del rock italiano, prima leader degli Underground Life, poi protagonista di una carriera solista tanto lontana dalle luci dei riflettori quanto vicina alle vette della nostra canzone d’autore. Ascoltando album come “Falene” (2004) o “Sangue bianco” (2010) l’ascoltatore si trova immerso in un’atmosfera di sublime decadenza, dove a farla da padrona è la bellezza.
Dopo Bugo, Giuliano Dottori, Andrea Chimenti, Erica Mou, Levante, Patrizia Laquidara e Rossano Lo Mele, abbiamo intervistato gianCarlo Onorato sulle sue letture preferite e sul suo rapporto con la narrativa, arte con la quale si è misurato anche in prima persona pubblicando diversi libri tra i quali “Il più dolce delitto” ed “Ex”.
 
Ricordi quando e come è iniziata la tua passione per la narrativa?
Mi pare di esser sempre stato in questo viaggio di scoperta per la narrazione. Quindi non ho un ricordo netto, ma se ripenso alla mia infanzia, so che già allora tutto quanto potesse dirsi rappresentazione della realtà, specie da un’angolazione intima, mi interessava. Probabilmente per me le varie discipline sono state da subito mescolate.
Ciò che mi interessa nella narrativa, e quello che io intendo per narrativa, è immersione nelle cose della vita. Non ha alcun senso il raccontare per il raccontare, non per me. L’unico senso possibile mi pare una narrazione foriera di scoperte speciali e che diviene indagine di anfratti umani, psichici, etici. La narrativa deve saper raccontare di noi nel profondo e illustrarci sempre un po’ di più chi siamo in verità. Ad essa io assimilo l’idea di scienza arte insieme, unite in un solo abbraccio.
Chi legge, come chi ha scritto, deve sentire l’istante in cui molla i freni e si lascia portare da qualche parte. Se avviene questo, siamo dentro.
Dopo i primi libri incontrati nell’infanzia con curiosità e nell’adolescenza con tensione, col tempo molti testi non erano più sufficientemente attraenti per me, che vi preferivo le favole illustrate, perché percepivo nelle illustrazioni un potere assai più grande e una capacità maggiore di dirmi delle cose, molte delle quali potevano essere prodotte da me medesimo dopo aver raccolto le prime suggestioni, quindi entravo in un ruolo di attiva creazione di ciò che il testo aveva saputo evocare.
 
Come sono cambiate da adulto le tue abitudini di lettore, rispetto a quando eri ragazzo?
La narrativa diciamo classica l’ho assimilata all’incirca tra i dodici e i diciotto anni, del tutto avulso da contesti scolastici, sia chiaro. Hesse, Mann, Proust, Flaubert, Maupassant, Poe, Calvino, Buzzati, Moravia. Occorre riconoscere che la lettura allora sapeva di fuga per un ragazzo fuori posto ovunque, era qualcosa in cui potevi immergerti completamente. Oggi vivere per un adolescente, e non solo, direi un po’ per tutti, è un’esperienza più complessa e articolata, tanto in meglio quanto in peggio: iperstimolata, eccitata da molteplici fonti di informazione. Il frastornamento che ne deriva spesso determina il bisogno di prender le distanze, perché viene a mancare l’appetito, che è sempre l’elemento chiave per qualunque scoperta.
Allora per un adolescente una stagione come l’estate sapeva essere una stagione compatta, silente, perfetta per il rifugio in un testo, potevi restartene del tutto astratto dalla realtà effettiva. E la lettura stessa era un momento potentemente creativo.
Col tempo sono invece diventato un lettore acuto ma disordinato, richiamato da più fonti in contemporanea, e dopo avere fatto incetta di filosofia, sono sempre più spesso attratto dalla psichiatria, dalla neurofisiologia e dalla fisica teorica, assai più raramente dalla narrativa. Sono onnivoro, desidero ogni sorta di conoscenza, da quella più lirica e alta a quella più umana. Mi serve a capire meglio per quali vie arriviamo ad esprimere il colore che prendiamo di dentro. Ciascuno di noi si colora in un qualche modo, e in quel colore esprime il mondo. Vi sono milioni e milioni di sfaccettature, tante quante sono le persone. I libri non sanno descriverle tutte, non possono, ma restano compagni di base, irrinunciabili. Ma guai a sostituire la vita con l’astrazione.
Purtroppo non si può avere contatto con tutto ciò che in realtà ci farebbe davvero bene sapere, è una lotta impari. Leggo dunque in modo discontinuo, disarticolato, ma in profondità, e col desiderio di mettere le mie scoperte in stretta relazione con l’interpretazione della realtà. Sento sempre l’urgenza di cogliere il senso delle cose, la mia mente ha fame di continuo di conoscenza in senso totale. Amo invece l’incanto della poesia. Mi pare che la produzione di quest’ultima, rimanendo su un piano più velleitario rispetto alla prosa, conservi una verginità che la preserva, la mantiene mediamente migliore della narrativa sterminata che si produce, a vanvera, peraltro.
 
Cosa diresti alle nuove generazioni per convincerle a tornare a dedicare il proprio tempo libero alle pagine di un romanzo piuttosto che alla condivisione insulsa di post sui social?
Niente, credo. Non c’è qualcosa che si possa dire a un ragazzo che non ha ancora conosciuto il senso unico di scoperta ed il piacere che viene dalla lettura. Se un ragazzo ha la sensibilità di ascoltare qualcuno che sappia dargli indicazioni, significa che è già pronto da sé per fare certe scoperte.
Bisogna forse saper essere stimolatori, provocare l’interesse, ma sono eventi rari, per farlo serve altro che un discorso, servono una serie di segnali. In verità è un tema al quale sono sensibile, giacché i miei contatti con le generazioni più tenere sono frequenti, e tra me e chi ha fame di vita si stabilisce sempre un’intesa speciale. Questo elimina in modo naturale le differenze generazionali.
Ma quello della dipendenza dalla falsa socialità della rete è un problema che ha anche tanta parte del modo adulto, il che è più grave. Non credo che il guaio sia internet e le sue trappole di isolamento, bensì la mancata formazione di un senso critico che sta dietro a milioni di esistenze vuote.
Uno giovane che scopre la vita va invece accompagnato in piena condivisione del suo proprio mondo: se non sei capace di entrare nel suo, non potrai ottenere che lui arrivi a comprender ciò che vorresti offrirgli, per quanto profondo sia il bene che intendi passargli.
E’ il guaio che sta alla base del fallimento genitoriale: non sai chi è tuo figlio, perché non sai chi tu sei.
 
C’è uno scrittore con cui ti piacerebbe fare una chiacchierata?
Parlerei di gusto con qualcuno che sapeva interpretare davvero il tempo in cui ha vissuto, che ha saputo vedere avanti senza appartenere ad alcuna categoria di preciso. Sarei tentato di nominare Pasolini, perché tra le tante cose che non è, non è uno scrittore. Ma sai, mentre lo pronuncio, mi rendo conto di quanto sia pericoloso questo nome, perché è stato abusato, tirato da una parte e dall’altra, una volta compiuto il suo sacrificio, quando invece in vita dava realmente fastidio.
Il nostro è un paese canaglia dal punto di vista intellettuale: troppi furbi, troppi delinquenti della parola e del pensiero politico. Intellettualmente canaglia e analfabeta.
Di Pasolini amo il coraggio che è la sua più autentica virtù, che è in verità istinto, obbligo interiore, l’obbligo di saper andare oltre gli schemi asfittici di ogni ambito, tanto da finire per essere inviso una sinistra prossima a divenire il fantasma di se stessa e un po’ a tutta la presunta intellighenzia del periodo, già finita a operare quasi unicamente per interesse personale. Fare “cultura” a metà degli anni settanta era già un avamposto di poteri e di privilegi, anche economici. Il paese era ancora immaturo, potevi manipolare bene le coscienze. La gente credeva ancora nelle rivoluzioni, o almeno credeva di crederci, per un retaggio di retorica storica. Mi piacerebbe parlarne con lo spirito di Pasolini. Perché al suo tempo si sono giocati dei passaggi decisivi per ciò che viviamo al presente, soprattutto in male, e dirgli dove siamo oggi. Molte critiche forse le smentirebbe, ma ve ne sono altrettante, in cui temo sarebbe solidale.
Ci sono condizioni della vita e della storia in cui bisogna saper vedere le cose al di là dei canoni e delle categorie alle quali crediamo di appartenere. Questa onestà la sento mancare spesso attorno a me.
 
Lo scrittore che troverebbe le parole più belle se dovesse raccontare la tua vita fin qui?
Mi viene in mente Proust, probabilmente. Quando si cala nei meandri del sentire, e sa dire cose altrimenti sconvenientissime per chi è pieno di muri interiori, pur riuscendo nell’impresa di dire tutto, niente escluso, senza che possa suonare come sconcio o proibito.
Proust ha una sensualità retroflessa, la senti salire nel corso dell’opera, senti che si stanno dicendo cose intimissime, ma non dimentichi mai che si sta dicendo in fondo anche del perché di ciò che accade.
 
Lo scrittore al quale faresti scrivere i prossimi dieci anni della tua vita?
Non esiste, dunque li scriverò io vivendoli. L’opera migliore è quello che riesci a vivere realmente.
 
Lo scrittore che non hai mai digerito?
C’è tanta parte della letteratura attuale che mi risulta fastidiosa. Ma per falsità, direi, per vuotaggine. Ma non vedo perché rischiare di screditare il lavoro di altri dalla posizione privilegiata di una intervista che ho in questo momento. In un confronto diretto, direi espressamente ad almeno una decina di scrittori o presunti tali il mio parere, e cioè che hanno poco o niente da dire, che lo dicono in modo banale, retorico, accarezzando sempre il consenso e che sono grosso modo il frutto di una diffusa incompetenza in fatto di letteratura. La qual cosa può tributare riconoscimenti e generare sopravvalutazioni. Siccome viviamo in un periodo in cui più che mai non conta quello che esprimi, ma conta il seguito che ciò è in grado di produrre, appaiono tanto spesso vincenti delle nullità.
Ma se vogliamo riportare alto il livello della produzione di pensiero letterario, occorre ripartire dalla formazione di tutti. Del pubblico in primis.
 
Musica e letteratura: quali sono i libri preferiti di gianCarlo Onorato?Quali sono i tre romanzi della tua vita?
Se intendi i romanzi che hanno creato un suggello nel mio sguardo in fatto di narrativa, sforzandomi ti risponderò che posso pensare siano:
 
Lo straniero, di Albert Camus.
Camus è una mente potente e asciutta, capace di travalicare il ruolo di mera scrittura, per giungere alla riflessione filosofica. In quelle pagine risuona il senso di vuoto di un uomo che comprende la squalifica di qualunque senso dal proprio universo, e guarda con fessa indifferenza al nulla che la vita sembracelare.
E’ il più secco romanzo breve io conosca, e mi ha intensamente impressionato, lo lessi prima dei ventanni, e mi suggerì che scrivere è prima di ogni altra cosa criticare, è riflettere fuori di scena, fare cadere le quinte della rappresentazione e infilarsi nel vivo delle cose vissute. Non posso evitare di ricordare che in seguito divorai La peste e più tardi centellinai Il mito di Sisifo, dove Camus diventa elastico, e lavora col concetto di assurdo con l’acume e la sintesi propria solo di un fine pensatore. Le dinamiche della morte dello scrittore mi hanno offerto più di uno spunto filosofico. Ci ho ho lavorato più volte e tornerò a farlo. 
Venere in pelliccia, di von Sacher Masoch.
Ma non esattamente ciò che vi è scritto, non per la storia, intendo, che ha creato in me un punto di non ritorno, bensì per il retrotesto, per ciò che la scrittura di Masoch sa evocare in chi possegga un animo particolarmente acceso verso i meandri dell’umano. E io sono così. Il fatto che vi si narri la delizia e insieme la tortura psicologica procurate dalla sottomissione a una donna crudele e bella, o bella perché crudele, è di per sé un tracciato poetico di una finezza inaudita, in grado di richiamare molte diverse cadute e illuminazioni della psiche.
Per me l’amore per le donne è vissuto esattamente al rovescio rispetto alla visione di Masoch, ma rimane il fatto che il coraggio di parlare di qualcosa, se è il caso, fino al buio delle proprie pulsioni, è esattamente ciò che io intendo per narrativa.
Masoch ai tempi era assai stimato, cadendo poi nel dimenticatoio dopo la sua morte, per essere quindi ingiustamente ricordato in associazione alla perversione erotica di provare piacere nell’essere umiliati, detta appunto masochismo.
Che peccato, una cretineria dovuta all’infelice definizione di Kraft Ebbing, che segnò e abbassò allo squallore da trattato di psicopatologia un sentire finissimo.
La tendenza ad erotizzare il proprio ruolo di dominato, per Masoch era evidentemente qualcosa di più alto. Ma quando un fatto poetico passa dalla scrivania di un medico, diventa subito malattia.
Il terzo, non so, potrei dire Tropico del capricorno, oppure Il barone rampante di Calvino, La filosofia nel boudoir, o Le anime morte, di Gogol, che ha tra i più bei titoli che si siano visti.
C’è sicuramente da qualche parte qualcosa che mi ha piantato un segno dentro, ma non è facile richiamarlo a comando, mi sarebbe più facile citare i testi di filosofia che mi hanno davvero acceso e mosso. O ancora, ci sono opere d’arte figurativa che posseggono un potere di suggestione poetica e narrativa di gran lunga più forte di quella evocata da untesto.
Le parole sono difficili, dovrebbero descriverci il mondo di dentro e di fuori, ma sono sempre inadeguate. Troppe le volte in cui basterebbe poco per dire tutto, e troppe quelle in cui sono inefficaci per ficcarsi nel dentro, inprofondità.
La narrativa, come ho detto, mi tocca solo quando è altissima distilleria.
La voce della propria amante o amata percepita all’orecchio, con un sussurro, è di gran lunga più narrativa di qualunque buon testo.
 
Musica e letteratura: quali sono i libri preferiti di gianCarlo Onorato?Da anni accompagni all’attività di musicista quella di scrittore. In cosa si distinguono maggiormente musica e letteratura? E in cosa si assomigliano?
La musica è una forma di narrazione, è definizione di mondo passante attraverso la scelta e l’accostamento di suoni. Ha una forte connotazione filosofica. Fin qui io mi sono occupato principalmente di canzone, e la canzone, impoverita dal pessimo utilizzo che se ne è fatto e se ne fa, è in verità una frangia alta della disciplina musicale, perché potrebbe elevare alla massima potenza proprio il valore narrativo già connaturato alla musica. Ma non ho mai smesso per un minuto di pensare e di puntare alla musica in senso assoluto, presuntuoso, ambizioso, come si deve fare in arte. Bisogna osare, andare oltre tutto.
Nello scrivere io sono musicista e sono scrittore nel fare musica. Posso farlo poiché non ho alcun sentimento di immedesimazione con alcuna delle categorie. Non mi sono mai pensato scrittore o musicista, meno che mai pittore, sono ciò che riesco ad essere nel momento in cui faccio qualcosa. Se avessi creduto alle categorie, ai metodi, alle grammatiche, ai ruoli, alle scuole, alle graduatorie, ai generi, non sarei mai stato nulla. Se non fossi stato presuntuoso, non avrei mai cominciato, dunque non avrei neppure trovato la mia vena.
Ma tanto per la musica quanto per la scrittura, non si può decidere di diventare creativi. Conobbi un tale che leggeva e aveva letto moltissimo e che era in grado di ricordare e citare un numero spropositato di scrittori. Era, come si dice, un erudito. Un giorno mi annunciò che avrebbe scritto un libro. Che significa?, chiesi. In sé non ha alcun senso dichiarare di voler scrivere un libro. Qualunque cosa può diventare un libro, ben altro è produrre compiutamente pensiero in una forma narrativa. In quel caso un proposito è divenuto un fatto. Comunque sia, questo mi disse che “avrebbe scritto”. Qualche settimana dopo lo rividi, e a domanda sul suo libro rispose che non ci riusciva perché si bloccava davanti alla pagina, e si dilungò quindi nello spiegare a me che il difficile è cominciare. Approfittai per dire che era un’idiozia. Questo lo ha già fatto Joyce, e quest’altro invece è troppo Capote, e così via. Allora io gli feci notare che non è necessario scrivere, e se esistono già Joyce e Capote, questo dovrebbe starci bene. E dissi a lui ciò che direi e dico a chiunque immagini che scrivere sia un’attività per cui sia necessario sedersi e sforzarsi di pensare a qualcosa. Queste sono cretinate da filmetto di quarta categoria. Purtroppo credono in molti di essere scrittori. Del resto, basta fare un giro in qualunque libreria per accorgersi che la stragrande maggioranza di ciò che viene pubblicato è del tutto inutile.
Scrivere o musicare è invece un avvenimento, un rapimento sensuale. Una malattia. Qualcuno ce l’ha, altri non possono contrarla neppure mangiando giorno e notte le migliori pagine che siano state prodotte nella storia.
Così come bisogna saper pensare la musica, bisogna saper pensare la narrativa, sono forme di pensiero. Ma le due discipline, pur appartenendosi, sono differenti.
La musica è quasi sempre qualcosa che, nato da me, subirà molti processi di trasformazione dati dalla condivisione, mentre la scrittura è univoca, ed è frutto di una mente sola, sebbene influenzata da molti fattori, e diretta a una mente sola. Ogni scrittore parla dritto ad un solo lettore per volta. Ci sono io che scrivo e tu che assimili, o viceversa, perché uno scrittore è prima di ogni altra cosa un lettore formidabile, non necessariamente nella quantità, ma sempre nella qualità dilettura.
La musica ti arriva invece quasi sempre mediata da diversi fatti, come l’esecuzione da parte di altri che non sia l’autore, cosa che prevede un processo di manipolazione e trasformazione, in bene e in male, poi la diffusione fisica di essa in un dato ambiente oppure in un altro, con determinate condizioni psico-fisiche e così via. E’ un evento in mutazione continua, non è un caso che sia un fatto fisico. Ma si tratta di disciplina condivisa per eccellenza.
 
La musica può essere raccontata in narrativa in modo credibile ed efficace?
In un certo senso. Ci sono ritmi, scenari, pause, armonie nello scrivere che sono di per sé musica, senza che l’argomento debba necessariamente riguardarla.
Così come esiste musica talmente descrittiva, da suggerire immagini e situazioni tanto quanto una storia scritta. Anche di più di uno scritto, avvalendosi dell’ambiguità data dalla percezione differente che ciascuno potrebbe trarne in momenti differenti.
 
Credi che in Italia ci sia uno status molto diverso tra la figura dello scrittore e quella del musicista?
Io ho un’esperienza di formazione molto speciale sia come musicista, sia come scrittore, anche se queste definizioni come è noto mi stanno un po’ strette. Non appartenendo dunque precisamente a nessuna chiesa, ad alcun circolo eccetera, posso vedere bene quanto siano tendenzialmente a chiusura stagna le due differenti condizioni.
Probabilmente le cose cambieranno, ma ben poca gente tra chi scrive ha un’idea compiuta dell’avvenimento musicale. E quando ne hanno coscienza, è quasi sempre una coscienza parziale, di genere. Molti scrittori sono ancora fortemente intrisi della convenzione per cui la musica sia un fatto sacrale, e sempre per ignoranza danno per scontato che sia un fatto che preveda un’educazione rigorosa, di conservatorio, qualcosa cui dovere rispetto per partito preso. Una specie di religione, e onestamente fanno un po’ pena, come tutti coloro che sacralizzano.
Manca la ferocia di abbattere i compartimenti, le convenzioni, le istituzioni.
Il risultato è che chi scrive è mediamente ignorante rispetto a ciò che accade in musica e viceversa, naturalmente. A dispetto delle pose da intellettuali, in generale i musicisti si sono molto rimpiccioliti da un punto di vista conoscitivo, si sono rannicchiati nell’angusto ambito di appartenenza. In generale le conoscenze di tutti si sono moltiplicate ma solo in superficie, il che è anche peggio che sapere poco ma molto bene.
Ma ciò che è tragico è che non accade solo nei circuiti rock e pop, ma ampiamente anche in quelli diciamo colti. Forse non sarà così in assoluto, ma è la tendenza generale.
Tra le due dimensioni vi sono molte analogie, ad esempio dal punto di vista della conduzione dell’esistenza. In entrambe le professioni raramente ci si può dedicare unicamente alla propria attività. E’ in voga da anni la figura dello scrittore che per vivere fa altro, perché come si può capire, se vivere di musica è diciamo piuttosto duro, vivere di scrittura rasenta l’impossibile.
Per convenienza più che per urgenza artistica ci sono sempre più delle invasioni di campo, da una parte e dall’altra: molti scrittori prendono forzatamente la via della rappresentazione pseudomusicale, perché in un certo qual modo paga di più, e molti musicisti tentano la carta di “nobilitarsi” con pubblicazioni di narrativa. I risultati a mio avviso sono quasi sempre inaccettabili, approssimativi, amatoriali.
Rimane il fatto che quella dello scrittore e quella del musicista nel significato profondo sono tuttora due dimensioni affatto separate. Sono mondi che non si compenetrano veramente e non dialogano. E io mi sento un alieno. Poco male, posso sopportarlo, frequento altri cieli. Inoltre dobbiamo pensare che le cose possano sempre migliorare domani.
 
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