Il Festival Ferré dovrebbe esserci tutti i giorni perché rende le persone migliori

 
di Rosita Spinozzi
 
 
 
SAN BENEDETTO DEL TRONTO, 2016-06-11 –  Sono poche le cose che non deludono mai nella vita: il Festival Ferrè è una di queste. È una certezza che si rinnova di anno in anno, coniugando in modo mirabile la tradizione e il rinnovamento attraverso una eccellente varietà artistica, grazie all’entusiasmo e all’incessante impegno del direttore artistico Giuseppe Gennari, presidente del Centro Ferré, e del direttore operativo Maurizio Silvestri. L’opera somma del grande Léo Ferré è troppo bella e preziosa per essere tenuta prigioniera in uno scrigno dorato destinato soltanto a pochi eletti cultori, trasuda troppa verità per essere salvaguardata da contaminazioni. Ed è talmente permeata di contenuti musicali e poetici che sarebbe un vero sacrilegio non avvicinarla alle nuove generazioni che, dal canto loro, non possono fare a meno di amarla. Ferré oggi è attuale più che mai, ed è un privilegio per la nostra città ospitare un Festival di così alto spessore culturale, che porta con sé prime assolute in Italia e un alone di bellezza dal quale è difficile distogliere lo sguardo. Le due serate al Teatro Concordia sono state sbalorditive per il talento, le diverse cifre stilistiche dei protagonisti e la loro variegata provienienza geografica, la proiezione del video dedicato a Mario Dondero in cui il fotografo interpreta ‘Les feuilles mortes’. Alla deliziosa  francese Céline Pruvost,  accompagnata alla chitarra e al piano da Bastien Lucas, l’onore e l’onere di aprire la ventunesima edizione del Festival Ferrè per la quale ha portato in scena lo spirito, l’intelligenza e il profumo del più pungente Cabaret parigino. Céline ha inondato il Concordia con la sua eleganza tratteggiata da una voce dolcissima e ben delineata, non mancando di interagire con il pubblico in un italiano pressochè perfetto. Il suo omaggio alla nostra terra è stata una canzone di Lucio Dalla, seguita da un ricordo di Enrico Medail, storico traduttore dei testi di Ferré e di altri grandi artisti francesi di quel periodo. Dalla verve ironica di Céline al piglio affabulatorio e al prorompente virtuosismo vocale di Giovanni Truppi  il passo è stato tanto improvviso quanto intrigante.  Truppi è un cantautore da tenere d’occhio perché porta con sè infinite sonorità,  che trovano sfogo in testi accattivanti come ‘Eva’ e ‘Tutto l’universo’. Non a caso è stato assai applaudito al Tenco 2015, ed attualmente è  indicato dalla critica come il cantautore italiano più promettente per la sbalorditiva varietà della sua paletta poetica e musicale.  Molto intenso il suo cadeau a Ferré, ‘Piccina’, eseguito al pianoforte. Bravi i musicisti che lo hanno accompagnato in questo viaggio: Fabio Capalbo (batteria), Daniele Gennaretti (chitarra e tastiere), Giovanni Pallotti (basso). Dulcis in fundo Pilar, al secolo Ilaria Patassini, meravigliosa creatura dalla voce insinuante ed evocatrice, definita da Gennari  ‘una regina del canto modulato in tutta la gamma vocale tipica delle sirene incantatrici che, dal tempo di Ulisse, ammaliano i cercatori di infinito’. E Pilar incanta davvero, non solo per la sua splendida voce ma anche per il savoir faire, arguto ed intelligente, con cui ha presentato le sue canzoni al pubblico. Pilar è un’artista completa, può fare ciò che vuole ed è ammaliante persino quando si diverte a sciorinare i nomi dei 73 vitigni autoctoni italiani che, pronunciati dalle sue labbra, diventano una melodia accattivante ed inebriante come il vino stesso. Pilar ci ricorda che l’intuizione femminile non è sesto senso ma sintomo di intelligenza, ci delizia con ‘Cherchez la femme’, scherza amabilmente  con i suoi musicisti (Federico Ferrandina – chitarre, Roberto Tarenzi – pianoforte, Alessandro Murri- batteria, Andrea Colella-contrabbasso), e conclude con la versione italiana di ‘Avec le temps’ di Ferré. Tripudio di applausi.

 

 
Et voilà! I riflettori della seconda serata del Festival Ferré si accendono sulla figura imponente dello ‘scrittattore’ sambenedettese Francesco Tranquilli, alle prese con un folgorante monologo in omaggio a  Ferré: lo chansonnier è in Cielo dove si sente ‘giovane’ poiché ha lasciato la Terra da poco più di vent’anni rispetto a Mozart, Beethoven ed altri colleghi che sono ‘partiti’ molto prima. Sono tutti lì, a  ‘provare’ all’infinito.  A Ferrè in passato è capitato di avere diecimila anni, ma ora le cose sono diverse perché diventa eterno. Splendide e ben interpretate queste ‘confidenze raccolte e tradotte’ dal bravissimo Tranquilli.  Dopodichè entrano in scena le melodie classiche in stile Rive Gauche del canadese Bernard Cimon, ottimo cantante, pianista e fisarmonicista,  che ama rievocare le atmosfere de l’air du temps et du pays. Tra i suoi maggiori desideri c’era quello di partecipare al Festival Ferrè, così quest’inverno ha raggiunto il Centro Ferré a San Benedetto portando con sé un bagaglio composto unicamente da talento, umiltà e fisarmonica. Mai scelta si è rivelata più felice, perché in caso contrario non avremmo conosciuto questo garbato interprete che ha accarezzato i nostri padiglioni auricolari con java, tanghi,serenate, slow, valzer musette, bolero,  sulle ali di una contagiosa capacità di coinvolgere il pubblico: l’unico in Italia ad  avere avuto l’opportunità di ascoltare l’inarrivabile Java Bleue, la splendida Tornerai, la struggente  Parlami d’amore Mariù (brano musicale cantato nel 1932 da Vittorio De Sica) e tanto altro ancora. Un bellissimo tuffo nel passato, dunque, per poi tornare ai nostri giorni con le eccellenti composizioni al bandoneon del musicista fermano Daniele Di Bonaventura,  accompagnato al pianoforte dalla maestria interpretativa del fabrianese Giovanni Ceccarelli. E qui, oltre ai due musicisti di indiscusso talento, un plauso lo merita Giuseppe Gennari per la sua straordinaria capacità di intrattenere il pubblico nei momenti di ‘vuoto’ che precedono il cambio di microfoni e strumenti, oppure eventuali problemi prontamente risolti da uno staff tecnico di tutto rispetto. Perché, ‘artisti stellari’ a parte, il vero asso nella manica è l’inarrivabile Gennari, sempre in grado di ‘riempire i buchi’ in maniera intelligente, ironica,  flettendosi sul palco a dispetto dei suoi quasi ottant’anni gridati a gran voce  (può permetterselo, ha più energia vitale di un ventenne!), conquistandoci con i suoi aneddoti, le sue boutades, i suoi voli tutt’altro che pindarici perché in realtà Giuseppe, colto da entusiasmo,  si tuffa letteralmente dal palco per raggiungere la platea. Perdonate la divagazione, ma a questo piccolo, grande uomo dobbiamo tutti molto, e non corro il rischio di essere smentita se affermo che il vero asso nella manica del Festival è proprio lui. Perché chi altri sarebbe mai riuscito a portare a San Benedetto del Tronto uno strepitoso duo composto  addirittura da Cali e Steve Nieve?  Due astri luminosi che hanno donato un finale esplosivo al Ferré, facendo letteralmente balzare dalle poltrone il numeroso pubblico in sala. Bruno Caliciuri, in arte Cali, è una rockstar e questo non si discute. Lo si intuisce non appena  entra in scena dopo uno strepitoso assolo di Steve Nieve, musicista e compositore di livello internazionale che ha collaborato a  lungo con il grande Elvis Costello.  Le dita di Nieve si fondono alla tastiera e producono suoni eccelsi, mentre Cali fa il suo ingresso di nero vestito, alto, slanciato, chioma sbarazzina, pose plastiche che metteno in risalto le linee del corpo e la simbiosi con il luogo che lo circonda. Cali è energia allo stato puro, non resta mai immobile e le parole sgorgano limpide dalla sua ugola d’oro. L’artista interagisce con il pubblico, scende in platea, improvvisa un lento con Gennari, inscena un duetto con una signora, sale sui braccioli delle poltrone, si concede generosamente agli obiettivi puntati su di lui e, addirittura, prende uno smartphone in prestito ad una signora e  gira per lei un video. Tutto questo senza mai smettere di cantare. E canta bene, Cali.  Molto. Canta ‘l’amore di cui ha bisogno’, ‘l’amore che lo ha ucciso’, l’amore che deve arrivare (C’est quand le bonheur). E canta anche la meravigliosa L’Age d’or , canzone che ha duettato al telefono con Gennari la prima volta che si sono sentiti, l’attimo fatale in cui si è accesa quella scintilla che lo ha portato nell’Olimpo del Festival. Cali è generoso, mette più volte in risalto la genialità di Steve Nieve con il quale ha intrapreso una prolifica collaborazione musicale, e  ringrazia anche Luca Di Carlo che, con la sua tromba, lo ha accompagnato in alcuni brani. L’eclettico artista conclude l’esibizione al Concordia leggendo una lettera  dedicata alla signora Marie Ferré la quale, dopo un comprensibile momento di commozione,  gli consegna la Targa Ferré 2016  in qualità di ‘grande poeta e musicista, innovatore della canzone d’autore, devoto a Léo Ferré’. È notte fonda, ma gli animi sono ancora accesi e la serata non finisce qui. Il motivo? Cali canta insieme a Gennari e, a sorpresa, incita a salire sul palco un graditissimo ospite  e amico da sempre del Festival: Andrea Satta dei Têtes de bois. E torna di nuovo la magia. Perché il Festival Ferré è così, non finisce mai. Perché con Gennari c’è sempre uno spettacolo dopo lo spettacolo. All’uscita del Concordia ho espresso un pensiero ad alta voce: «Il Festival Ferré dovrebbe esserci tutti i giorni» e Maurizio Silvestri ha completato la mia frase dicendo esattamente quello che stavo per dire «perché rende le persone migliori». Ed è proprio così. Tutto il resto è noia. Arrivederci a mercoledì 24 agosto, con la serata speciale ‘Bon anniversaire, Léo Ferré!’ per celebrare i cento anni dell’indimenticato chansonnier, con protagonisti Annick Cisaruk, Christiane Courvoisier, Michel Hermon, ed un ospite d’onore a sorpresa. A bientôt!
 
Ph © Davida Zdrazilkova Ruggieri
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