Resistenza del dorsale degli Appennini

 
San Benedetto del Tronto – Negli anni ’80 quando sono arrivato nelle Marche, per dovere professionale ho dovuto studiare l’Italia Centrale dagli Appennini al mare Adriatico. Il dorsale degli appennini subito mi ha molto impressionato per la particolare bellezza, il verde così diverso dal verde dell’Abruzzo da somigliare al verde della Brianza che conoscevo molto bene. I librai di Ancona parlando di montagne non facevano altro che inneggiare alle Alpi sottovalutando le montagne degli Appennini. Naturalmente non ero d’accordo, rilevando che le Alpi e gli Appennini sono due cose diverse ma entrambi molto belli: le discussioni civili non mancavano e ognuno di noi rimaneva nella propria posizione.
 
 
 
Sugli Appennini si arriva seguendo la bussola del cuore. Non si capita per caso sulla spina dorsale dell’Italia. Non ci sono autostrade, né aeroporti, né treni veloci. Per raggiungerli ci vuol tempo: in linea d’aria Amatrice dista da Roma poco più di cento chilometri. Ma si impiega meno ad arrivare a Parigi con un low cost. E non ci si capita nemmeno per scelta. Molti italiani neanche sanno che esistono il Parco nazionale dei Monti Sibillini e quello dei Monti della Laga. Qualche straniero amante della genuina solitudine (olandesi, tedeschi, rari inglesi) ha ristrutturato ovili, casali, fattorie. Ma non esiste il turismo di massa che ha arricchito (e stravolto) le montagne del Nord. Nei musei civici e archeologici disseminati nelle cittadine della Sabina, del maceratese, del piceno, del teramano, non ci sono opere di Raffaello o Piero della Francesca, ma di Paolo da Visso e Cola dell’Amatrice: grandi artisti del XV e XVI secolo, però poco noti. Nelle chiese e nei santuari, icone, statue di legno e cicli di affreschi magnifici, ma anonimi.
Così, nonostante la bellezza del paesaggio — squisitamente italiana nella combinazione di natura selvatica modificata dall’intervento umano, dunque una bellezza culturale — e quella armoniosa dei borghi, e fin delle minuscole frazioni aggruppate sui colli, sugli speroni, sulle falde di monti dai nomi ai più sconosciuti, chi va lì di solito ritorna. Alla casa del padre, della madre, dei nonni, dei bisnonni. È un legame atavico, una fedeltà peculiarmente italiana, che fa tornare i figli, e i figli dei figli. Quasi soltanto d’estate, ormai. E, nell’estate, quasi soltanto dieci/quindici giorni.
 
Gli Appennini rivivono davvero dal sedici agosto all’ultimo fine settimana del mese. È come un pellegrinaggio laico all’origine, alla sorgente della propria vita: una festa popolare — il cui simbolo è la sagra degli spaghetti di Amatrice. Ma ogni paese ha la sua: si celebrano la pecora, la trota, la salsiccia, il fungo, la lenticchia, le cotiche, il gambero di fiume. Materie prime, e primarie, di un modo di vivere tramontato, ma non interrotto. Che risorge — ciclicamente — non come pretesto escogitato dalle pro loco, ma come memoria vivente. La sagra è l’allegoria del ritorno. Poi i paesi si svuotano, fino all’anno successivo. Crudelissima anche per questo la scossa: tra due mesi, il tributo di vite umane sarebbe stato molto meno esoso. E crudele tre volte, perché i sussulti della terra sembrano voler spezzare la catena dell’appartenenza, intatta nonostante l’emigrazione secolare.
 
Gli Appennini sono sempre stati un posto da cui andarsene. Perfino le pecore a fine settembre partivano, e svernavano a valle. E gli uomini che non erano pastori, formaggiai, norcini o carbonai, che non si facevano preti o frati, partivano. Il confine (tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie) era un’ipotesi disegnata sui crinali — ma le montagne sono fatte per essere attraversate.
 
 
 
Ogni anno, quando andavo a Gabbiano, andavo a trovare il giornalaio/libraio della piazza centrale di Visso (luogo che amo moltissimo); il quale in un impeto di ricordi storici mi ha raccontato la storia di Eugenio Bartoli di Visso il quale si mise in viaggio nel 1890: di cresta in cresta arrivò a Napoli. Fece il venditore ambulante di gelati, poi il cameriere. Vent’anni dopo, messo da parte qualche soldo, alla casa del padre tornò in villeggiatura, d’estate. E la figlia, ne comprò una più a monte, a Castelsantangelo sul Nera: dalle finestre vedeva le cime che il padre aveva dovuto valicare senza niente. E i nipoti di lei l’hanno tenuta, anche se ci andavano dieci giorni ad agosto.
 
 
 
Ed è per quella storia, che anch’io ho scoperto gli Appennini. Altrimenti forse non avrei mai scoperto le faggete dell’alta Valnerina, il crocifisso di Arquata del Tronto, gli altipiani di Castelluccio che a Fosco Maraini ricordavano il Tibet, e il silenzio magico del Pian Perduto sotto la neve. Non c’è quasi nessuno d’inverno, nei villaggi e nelle frazioni di pietra sbriciolati o scrollati dal terremoto. Qualche suora in remoti conventi che ospitavano dozzine di monache, o oggi appena due o tre, qualche giovane prete venuto dall’Africa nera, che impartisce più estreme unzioni che battesimi, gli anzianissimi — invalidi, smemorati — con le loro badanti rumene e ucraine, e le famiglie che mandano avanti, con fatica, le attività commerciali, i negozi necessari: gli alimentari, le macellerie, le farmacie, le pompe di benzina, i bar, le panetterie. Oggi si piangono troppi bambini, ma molte scuole di montagna hanno chiuso per mancanza di allievi. D’inverno ci sono più lupi che bambini, sugli Appennini dell’Italia centrale. E ci sono anche i pochi, coraggiosi, ritornati per restare. Quelli che hanno vissuto in metropoli, o all’estero, e hanno caparbiamente scelto di ricominciare daccapo, hanno aperto ristoranti, allevamenti, agriturismi e b&b, e hanno creduto di dare un’opportunità a se stessi, ai loro figli, alla periferia sconosciuta dell’Italia minore, che ci ha fatti come siamo.
 
L’identità è un fenomeno dinamico, e chi brandisce questa parola come una spada di solito ne abusa. Ma se esiste una specificità italiana, è la verticalità del rapporto tra le generazioni, più saldo rispetto al resto del mondo occidentale, che si traduce in una pendolarità geografica stagionale, localissima, a volte minuscola, ma, paradossalmente, davvero nazionale. Ricostruire case, ospedali, scuole, chiese e stalle è urgente. Anche per non lacerare il filo delle generazioni, e garantire la continuità del ritorno. In futuro, poi, si dovrà capire come far sì che questi Appennini orgogliosi e segreti diventino anche un luogo in cui si capiti per caso, o per scelta.
 
 
 
Ma il tempo passa e la mente d’ogni persona cambia con lo scorrere del tempo, sicché il mio pensiero considera ora la poesia di Leopardi l’elemento dominante di quel poeta che è uno dei più illustri della letteratura italiana. “Il primo amore”, “L’ultimo canto di Saffo”, “L’Infinito”, “Alla luna”, “Il passero solitario”, “A Silvia”, “Le ricordanze”, “Amore e morte”, “A se stesso”, “Il tramonto della luna”, “La ginestra” sono i gioielli d’una anima dominata da “Sora nostra morte corporale / de la quale nullu homo vivente pò scappare”.
 
Nell’arco di un secolo simili a lui furono Rilke, Poe, Baudelaire e da noi il D’Annunzio dell’“Alcyone”, Montale, Ungaretti, Quasimodo. Ma lui, debbo dirlo, li sovrasta quasi tutti.
Concluderò pubblicando alcuni brani di uno dei suo canti più belli: “Le ricordanze”. La sofferenza dell’anima s’è insinuata tra quelle righe e ha lasciato la sua impronta fino a diventare essa stessa la sostanza di quel canto disperato. O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! Sempre, parlando, ritorno a voi che per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obliarvi non so…
Ahi, ma qual volta a voi ripenso, o mie speranze antiche ed a quel caro immaginar mio primo, indi riguardo al viver mio sì vile. E sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m’avanza; sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto consolarmi non so del mio destino…
e spesso all’ore tarde, assiso sul conscio letto, dolorosamente alla fioca lucerna poetando, lamentai co’ silenzi e con la notte il fuggitivo spirto ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto.
 
 
 
Per finire, dico: che la messa in sicurezza di quel territorio è un dovere civile, politico e morale ancor più grande davanti alla dignità e al coraggio delle persone che hanno perso tutto a seguito del terremoto nell’Italia Centrale. Siamo eredi, indegni, di un grande patrimonio che ci è stato lasciato. Indegni perché non lo proteggiamo. Non ascoltare è colpevole. Davanti a catastrofi così non si può parlare di fatalità. Abbiamo una grande forza, l’intelligenza, per cui parlare di fatalità è fare un torto all’intelligenza umana. Bisogna alzare le difese, perché ogni volta che è stato fatto uno sforzo, c’è stato un risultato positivo. Non si deve allontanare la gente da dove ha vissuto. Amatrice, Pescara del Tronto, Arquata, Accumoli, Grisciano: bisogna ricostruire tutto com’era e dov’era. Sradicare le persone dai loro luoghi è un atto crudele. Vuol dire aggiungere sofferenza alla sofferenza. Bisogna ricostruire tra le pietre, le soglie e la gente che la abita. L’anima dei luoghi non si può cancellare. Chi ha subito un trauma terribile deve poter tornare a vivere dove è sempre stato. Né container né tendopoli. Tonino A.
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