In God we trust

 
di FDA
 
Michele Bunafo iniziò l’attività lavorativa nel comune di La Perla dell’Adriatico una cinquantina di anni fa, deciso a ben operare e ad attenersi scrupolosamente al ‘Manuale delle Norme Aziendali’ come gli avevano raccomandato durante i sei mesi d’addestramento nell’enorme sede romana della Società: gli ripetevano “Operi così oppure così! E rammenti , non si faccia prendere la mano dal ruolo prestigioso, c’è un Servizio di Controllo Interno che tutto può vedere e contestare!”.
Al termine dell’addestramento, gli fecero visitare anche il terzo piano della sede enorme dove solo una chiave speciale permetteva di fermare l’ascensore : vi imperava un silenzio assoluto e gli stanziali conoscevano il segreto della deambulazione a sfioro sulla moquette. Albergavano là il Presidente-Amministratore delegato, i tre Consiglieri di amministrazione e le rispettive segretarie. Gli uffici dei quattro e delle otto segretarie, le tre sale riunioni, l’aula di consiglio, la sala pranzo e le camere da letto con bagno dei top-managers occupavano quasi completamente i duemila metri quadrati del piano. Quasi, perché, laggiù, in fondo ai corridoi , c’era un altro ufficio: ‘Internal Auditing’ era scritto sulla porta.
Bunafo fu spronato ad entrare in quell’ufficio (un open space deserto) per presentarsi al capo degli auditors : costui stava dietro un bellissimo separè cinese a lacca nera e figure d’uccelli multicolori. Era di mezza età, estremamente alto, altrettanto magro, il volto glabro e il colorito cadaverico, i capelli lisci e grigi scriminati da destra a sinistra; ancora, aveva occhi chiarissimi, palpebre immobili; la bocca era un taglio con le estremità leggermente discendenti. Sedeva ad una scrivania sottodimensionata, quasi un banco di scuola elementare, il piano totalmente libero e un sottopiano con appoggiate tre cartelle chiuse ( blu, rossa, nera). Il busto aveva una rigidità innaturale mentre le gambe, strette l’una all’altra, forzavano il sottopiano del banchetto. L’abito era perfetto, nero. “Sieda” disse a Bunafo e gli carpì lo sguardo.
Aveva una voce adamantina, da bambino! “Come sta?” chiese, “Credo… bene” rispose Michele. “Crede o sta? Sia preciso”, “Sto…sto bene.”. “Per ogni domanda è accettabile una sola risposta”, “Sì”. ”Le hanno descritto approfonditamente il lavoro affidato?”, “Sì”. “Sì come?”, “Approfonditamente”. “Le sono state illustrate perfettamente le norme comportamentali inderogabili?”, “Si, perfettamente “ . “ Le ho scritte io”, “Sì, capisco”. “Non era una domanda. Non doveva rispondere. Dottore, le auguro buon lavoro a La Perla”.
Si alzò, gli porse la destra, tanto grande quanto flaccida e Michele mormorò un “arrivederci”: l’altro modificò di un niente le estremità discendenti della bocca – forse un sorriso – “ Non se lo auguri” disse.
Fu allora – fra il lasciargli la mano e il girarsi per uscire – che Michele notò quella specie di calco in gesso appeso sulla parete dietro il banchetto-scrivania : di un bianco ingrigito dal tempo, circolare, sembrava uno stemma. Aveva al centro il triangolo con l’occhio di Dio e due scritte curvilinee lungo la circonferenza: quella superiore affermava “IN GOD WE TRUST”, l’inferiore specificava “ALL OTHERS WE MONITOR”.
Uscito dalla stanza, Michele Bunafo petè silenziosamente.

Alcuni anni dopo, in piena estate, per tutta la settimana precedente la visita annunciata dell’Internal Auditing agli uffici di La Perla, l’aria in quei luoghi di lavoro fu irrespirabile: e commerciali e amministrativi e maestranze e femmine e maschi, tutti scorreggiavano silenziosamente senza riuscire a contenersi perché nessuno era esente da più irregolarità verso le norme aziendali. L’aria condizionata neppur mitigava sudori e odori corporali, neanche quelli del Direttore amministrativo locale che aveva comunicato la visita.
Poi, “Lui” arrivò. Da Roma, in auto, alle dodici solari del giorno programmato: con una vettura nera (e l’autista anche), vestito in nero, in mano una delle sue cartelline, la nera. Senza salutare alcuno, entrò nell’ufficio del Direttore e non fu mai visto ripartire perché si era trattenuto fino a notte come raccontò il Direttore stesso senza aggiungere altro. Ma quando, a distanza di qualche giorno, la cosa trapelò, la tensione dei dipendenti scemò d’incanto e l’aria divenne addirittura salubre: il Vampiro era venuto a dettare le regole per la cessione delle locali strutture logistico-amministrative ed il contestuale affitto delle stesse dall’acquirente, una strategia finanziario-fiscale adottata dall’azienda.
Michele Bunafo era religioso: a seguire la notizia tranquillizzante, si confessò nel Duomo e gli fu comminato per penitenza un Credo. Chiese di recitarlo in inglese, almeno l’inizio. Il confessore autorizzò.

Francucciovostro
Santomartire del Tronto, 08 ottobre 2016
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