“Scrivere un romanzo ti mangia la vita”: intervista a Fabrizio Patriarca
E’ appena uscito per l’editore 66th and 2nd e farà sicuramente parlare di sé: “Tokyo Transit”, l’eccitante romanzo giapponese di Fabrizio Patriarca. Si tratta della storia di una coppia di naufraghi esistenziali, gli amici Alberto Roi e Thomas Asca, alle prese con vizi e demoni privati nella Tokyo immensa e polimorfa di due lustri fa, raccontata con una prosa cicatriziale e arresa ad una filosofia del degrado che non lascia scampo al lettore. Patriarca mette in scena la disperazione del nuovo millennio, non ne discute il fascino né le nevrosi, ne evidenzia il transito. “Tokyo Transit” è un mal di vivere tascabile, disturbante e congegnato come quel soffocante ingranaggio che è la modernità. Abbiamo invitato l’autore a parlarci del romanzo.
Come mai Tokyo?
“Il Giappone, e in particolare questa città, mette gli scrittori in condizione di lavorare sull’onda di una certa scossa – lo notava anche Barthes nell’Impero dei segni. È una città che negli scrittori riattiva, per così dire, le vocazioni sommerse. In me ha risvegliato l’etologo, o l’entomologo. Consideriamo poi il fatto che molta filosofia giapponese contemporanea, extra-accademica o anti-accademica, legge la situazione attuale del paese come un termometro o una proiezione di ciò che sarà l’Europa e in genere l’Occidente fra dieci, massimo vent’anni: il rapporto con la moda, con gli oggetti, con la tecnologia, i criteri del consumo eccetera. Aggiungi che non volevo scrivere il tipico romanzo italiano degli ultimi anni. I miei personaggi non sono borghesi, per esempio. Non nella declinazione che il termine ha assunto nella narrativa recente. Non esprimono una classe cittadina ambiziosa e opulenta, una politica ladrona o qualche oligarchia di cafoni arricchiti. Fanno parte di quel tessuto che eredita le fortune o le sfortune di un ceto medio in disintegrazione: imprenditori o commercianti di statura rionale che hanno avuto la loro porzione di successo tra gli anni Ottanta e i Novanta e poi sono stati ingoiati dalla crisi. I loro figli sono i protagonisti della mia storia: hanno vissuto ai margini della città, nei quartieri periferici, l’educazione universitaria non gli è servita praticamente a nulla (infatti sono lì che sbarcano il lunario a Tokyo). Noterai inoltre che il romanzo non mette in scena personaggi giapponesi del genere “otaku” – i celebri consumatori di manga, videogiochi eccetera. Non ho rappresentato quel tipo di giapponese lì, la cosa sapeva troppo di scelta obbligata. Gli unici otaku del mio romanzo sono, per paradosso, i due personaggi stranieri, Thomas e Alberto. Il loro immaginario non è completamente nipponizzato, però nei suoi meccanismi funziona esattamente come un immaginario otaku. Che se vuoi è un altro modo per sottolineare come Tokyo rappresenti l’avanguardia di un intero mondo, che è anche il nostro.”
Come mai l’ambientazione temporale nel 2005?
“Volevo un Giappone pre-Fukushima, pre-ondata-nazionalista e soprattutto volevo un interludio molto nitido fra l’attentato del 1995 e il presente del romanzo. Dieci anni mi è sembrato un tempo ragionevole per mostrare insieme memoria e oblio rispetto all’evento cardine che sconquassa la vita del personaggio femminile, Motoko. In più c’erano una serie di marcatori che mi avrebbero permesso riflessioni spero interessanti, come l’introduzione a pieno regime della tecnologia full-hd, ma soprattutto di mettere i personaggi al livello del trentenne che io stesso ero allora. E poi semplicemente il fatto che come scrittore mi sento sempre diviso tra uno sguardo che va indietro, e la storia, che deve necessariamente andare avanti.”
Come mai due personaggi alla deriva?
“Mi sono chiesto cosa sarebbe stato della mia vita se non avessi fatto l’università, dove sarei potuto finire. È un problema attorno al quale ho cominciato a farmi domande molto serie nel 2012, quando ho liquidato definitivamente l’idea di una carriera accademica e ho aperto con un paio di amici un’agenzia di editing. L’università non mi ha voluto. Quando mi sono accorto che non mi voleva ho dovuto lasciarla, per continuare ad amarla. Ci ho lavorato praticamente gratis per anni, e oggi quando ci metto piede mi sento un apolide, un abusivo. Il personaggio di Alberto – beato lui – è uno che ci mette due mesi a rompersi i coglioni dell’università, invece di vent’anni. In questo senso “deriva” è un termine meraviglioso, perché rispetto, per esempio, a “naufragio”, implica una certa condizione volontaria. Abbandonarsi alla deriva. Una metafora sempre in voga fra chi parla di scrittura. Però a conti fatti quello dei miei personaggi è un “passaggio”: alla fine puoi pensarli come un appassionato di letteratura e un appassionato di filosofia che rifiutano filosofia e letteratura. Quindi li osserviamo nel momento in cui (soprattutto per Alberto) questo rifiuto prende forma, e consapevolezza. Questo mi ha obbligato ad alcune scelte di costruzione molto precise: il tipo di voce narrante (ubiqua ma spesso incline a un tono di sufficienza), un finale aperto. Comprimere il racconto nello spazio di un giorno e cercare lo spessore attraverso le digressioni. C’è deriva negli apparati: avrai notato che il glossario è compilato dalla stessa voce del narratore, fornisce informazioni ulteriori sui personaggi, punti di vista specifici su alcuni elementi della storia. Mi sembrava figo che la materia del racconto sgocciolasse negli apparati. I glossari, in particolare, hanno sempre un aspetto polveroso, confondono la fungibilità con la noia. Ma ti confesso: ciò che ardentemente desideravo evitare con questo libro era la “guida di Tokyo” travestita da romanzo.”
Da dove arriva la tua lingua spumeggiante, febbrile?
“Mi piacerebbe risponderti: ovvio, dalla mia mente spumeggiante e febbrile – ma non è così. Mi interessava una lingua razionale, fredda al punto giusto, che rispettasse gli spigoli della metropoli. Dico fredda perché credo si noti che l’umore del romanzo, anche nei momenti in cui si concede un’ironia o una battuta brillante, resta sempre cupo, quasi triste. Considera che dal momento in cui ho avuto le prime idee su una storia ambientata a Tokyo fino al momento in cui ho iniziato l’editing del libro sono morti entrambi i miei genitori. La morte del padre di Alberto voleva essere una specie di vendetta e rovesciamento per la scomparsa di mia madre, molto recente quando ho cominciato quei capitoli là. Invece alla fine mi sono ritrovato orfano di entrambi i genitori (con una coincidenza a dir poco inquietante: una notte avevo finito di leggere Esperienza, il libro in cui Amis racconta la morte di suo padre, e il mio, puntualmente, è morto il mattino dopo). Questo aleggiare luttuoso credo si percepisca nella lingua che ho provato a selezionare: spumeggia perché c’è qualcosa di moribondo dietro, e sai quanto sono ostinati i moribondi, quanto si attaccano alla vita. Sempre alla circostanza della freddezza allegherei un altro problema con cui ho avuto a che fare scrivendo, ovvero la definizione di un impianto metaforico uniforme che mi aiutasse a sostenere il racconto – una specie di principio di Archimede. Cito Archimede perché ovviamente quel sostrato metaforico ho provato a raggiungerlo attraverso la lingua della scienza, che informa di sé quasi tutte le figure metaforiche del libro, a partire dalle similitudini. In particolare mi piaceva il fatto che i miei personaggi ogni tanto pensassero alle stelle. E non ho in mente Leopardi o Kant, ma una scena del Re leone. So che molta parte dell’attività critico-interpretativa riguardo a uno scrittore consiste nel disegnargli attorno una costellazione di riferimenti (auctoritates, precursori eccetera). Nel libro c’è un piccolo tributo a Martin Amis, e mi fermerei qui. Molti scrittori sostengono che sia sbagliato lasciarsi influenzare dai contemporanei, a me sembra una posizione un po’ sciocca, perché nasconde un fondo di presunzione, tipo: non leggo Philip Roth se sto facendo una cosa mia, altrimenti finisce che scrivo come lui. Se io sapessi scrivere come Roth o Hemon non esiterei un istante a farlo. La verità è che per quanto uno possa impegnarsi a replicare un giro di frase poi ci mette dentro le sue pause, le sue istintualità, la sua enciclopedia personale, e questo produce sempre una variazione di tono rispetto a qualsiasi modello. Mi piace pensare di scrivere in una lingua che rappresenta i miei pregi e i miei difetti, i miei debiti e le mie libertà, ma soprattutto le mie ossessioni.”
In che misura “Tokyo Transit” corrisponde alla sua prima stesura e in che misura se ne differenzia?
“Un buon terzo del libro è cambiato dopo la consegna all’editore della prima stesura. Vedi: editore è la parola magica. Fortunatamente ho un editore che dal nostro primo incontro fino all’uscita del romanzo mi ha fatto sentire al centro di un progetto in cui il mio modo di scrivere giocava un ruolo decisivo. Ogni persona con cui ho lavorato mi ha spinto a precisare, a portare tutto il libro all’altezza dei suoi momenti migliori. Abbiamo i primi quattro-cinque capitoli che necessariamente devono far “ambientare” un po’ il lettore, poi mi sembra che le cose prendano a viaggiare bene per conto loro. Questo è importante, ed è il risultato di lunghe chiacchierate col mio editor, discussioni con l’editore, confronto con altri amici che conoscevano la prima redazione. Poi il risultato di tali faccende è bene che lo giudichi chi legge. C’è un unico punto su cui mi sento molto sicuro: ho visto molti romanzi che iniziano bene, grandi promesse, e poi piano piano sfumano, perdono intensità. Il mio in questo senso va in salita, cresce, e spero che i lettori apprezzeranno.”
Tokyo di giorno o Tokyo di notte?
“Dipende dal quartiere, naturalmente, perché parliamo di una megalopoli. Al largo posso dirti che Tokyo di giorno è affascinante perché sembra un pianeta femminile, interamente abitato da donne, padrone assolute delle strade, dei negozi, dei locali. Tutto il contesto di una città come Tokyo è alquanto respingente: la lingua, la riservatezza delle persone, quel sottile fastidio per gli stranieri celato dietro le maniere impeccabili. Però poi c’è questo magma femminile che ti accoglie… Ho visto gruppi di turisti andare fuori di testa sulle scale mobili di Shibuya 109, storditi dal flusso muliebre. Ho visto ragazzi giapponesi timidissimi, circondati da schiere di fanciulle, cedere al deliquio in un pomeriggio da Starbucks. Sì. E poi le solite navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.”
Murakami Haruki o Bret Easton Ellis?
“Di Murakami ho letto anni fa una versione in inglese di Underground che circolava in rete prima che Einaudi pubblicasse la traduzione italiana. Mi aveva colpito molto la facilità con cui lo scrittore riusciva a rimettere per intero alla sua prosa le voci dei singoli scampati all’attentato del ’95. Sensazione che si è mantenuta intatta quando poi ho letto il libro in italiano, nella traduzione di Antonietta Pastore. Anche in quella che doveva essere un’opera a carattere documentario spiccava la capacità elaborativa, la forza aggregante della prosa. Murakami è senza dubbio un narratore impareggiabile, anche se le atmosfere e i “salti” di molta sua narrativa non rientrano nei miei gusti specifici. Con Bret Easton Ellis diciamo che mi trovo in un ambiente più familiare: la scena di sesso a tre in Glamorama percuote il mio immaginario come solo lo splendido pompino finale in Pastorale americana di Roth. Alla fine credo che degli scrittori che abbiamo amato ci restano sempre dei “pezzi” attaccati da qualche parte, poi magari li ricomponiamo in strani pastiche, centoni immaginari che è bene non finiscano mai su una pagina: L’uccello che girava le viti del Dorsia…”
“Scrivere un romanzo è una sfida alla leggerezza, spero di non essere stato troppo pesante, perché è quello il mio vizio”, scrivi nei ringraziamenti. Quanto ti ha cambiato la sfida di scrivere “Tokyo Transit”?
“Sebbene per circostanze come l’età e la qualità della produzione io continui – come scrittore – a rientrare nella categoria arbasiniana del “solito stronzo”, gli amici mi confermano che come persona sono diventato sensibilmente più stronzo di prima. Il fatto è che – al netto di ogni visione romantica – scrivere un romanzo, anche uno pessimo, in qualche modo ti mangia la vita, e questo non è un fatto privo di ripercussioni. Vedo che nello scrivere sto imparando una certa misura, un amore della politura delle frasi che prima non avevo, e che non si manifesta per un desiderio di precisione quanto per un desiderio di verità, che a volte ti costringe a mettere dentro anche la screpolatura, a includerla perché ti rappresenta, come nell’ultima pagina di Tokyo transit, in cui il narratore esce allo scoperto. È un po’ come mettersi a giocare con le crepe del muro, un’attività infantile: vuoi staccare le cose dal loro supporto, ma vuoi farlo secondo un criterio di esattezza che correggi man mano che vai avanti – col vantaggio che scrivere un romanzo, rispetto a frantumare un intonaco, ti porta da qualche parte.”
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