“Rosewood Almanac”, il disco della maturità artistica: intervista a Will Stratton

Cantautore americano innamorato delle atmosfere delicate del folk britannico degli anni Settanta, amico di Sufjan Stevens, Will Stratton a soli trent’anni è già arrivato alla maturità artistica con il sesto album, l’intenso ed elegante “Rosewood Almanac”. Tra raffinato fingerpicking e versi di struggente poesia, Stratton ha le carte in regola per diventare un classico del songwriting del nostro tempo.
 
 
In che arco di tempo hai scritto le nuove canzoni?
E’ difficile da dire con precisione, non ricordo bene. Indicativamente ho scritto tutte le canzoni tra il 2014 e il 2016. La prima che ho scritto è stata “Light Blue”, subito dopo aver finito di lavorare al mio precedente album, “Gray Lodge Wisdom”.
Come descriveresti il processo di scrittura di “Rosewood Almanac”?
Ogni canzone ha un po’ una storia a sé. Alcune ho iniziato a scriverle strimpellando la chitarra. Altre ci hanno messo del tempo a venir fuori, ostinandosi a non funzionare ogni volta che cercavo di scrivere a tutti i costi. Così, ho semplicemente cercato di restare in attesa, tenendo la mente aperta.
Ci sono differenze sostanziali tra “Rosewood Almanac” e i tuoi album precedenti?
Diverse cose. Intanto ho cercato di coinvolgere un batterista, di coinvolgerlo nella mia musica molto più di quanto avessi mai fatto in precedenza. Ho ripreso a scrivere arrangiamenti d’archi. Ho evitato di scrivere canzoni che suonassero univocamente positive o negative. E ho suonato il basso, cosa che non facevo dall’epoca del mio primo album.
Probabilmente la mia canzone preferita dell’album è “Vanishing Class”. Tu ne hai una preferita?
Ti dirò che forse è anche la mia preferita. O “Vanishing Class” o “Thick Skin”. Tanto “Vanishing Class” è multiforme e piena, tanto “Thick Skin” è concisa, mi piacciono entrambe.
Cosa ti spinge ad essere sempre così intenso nelle canzoni?
Credo che uno che scrive canzoni non dovrebbe in alcun modo trattenere i propri sentimenti, tutto qua.
Non ti capita mai di sentirti un po’ imprudente nel mettere in musica le tue emozioni quasi senza filtro?
No, credo che essere ‘opaco’ dal punto di vista emotivo sia in qualche modo disonesto e sia qualcosa da evitare, a meno che per qualche motivo non serva allo scopo del brano.
Oltre ad essere emozionali, le tue canzoni hanno anche un importante elemento geometrico…
Cerco sempre di tenere in grande considerazione la struttura della canzone, di avere in mente dove voglio che la canzone vada e come riflettere ciò che viene un attimo prima in ciò che viene un attimo dopo, anche a dispetto della spontaneità a volte. La struttura mi aiuta a scrivere, mi aiuta a rendere più semplici le cose complicate, una volta inserite in uno schema simmetrico.
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Il primo disco degli Steely Dan, i primi due album di The Cairo Gang, Andy Shauf e il nuovo album di Joan Shelley. E poi… le prime due tracce che si possono ascoltare dal disco di James Elkington, che sto aspettando con impazienza.
Quali sono invece i tuoi autori di riferimento costante?
Bert Jansch, Leo Kottke e Joni Mitchell sono quelli che probabilmente sento più vicini a me in questo periodo.
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