Best of 2017: i dischi dell’anno del Mascalzone
Come ogni anno, il Mascalzone ha selezionato gli otto dischi del 2017. Se non i migliori, i più ascoltati, studiati, amati in redazione negli ultimi dodici mesi. Tra gradite conferme e strepitose sorprese – come l’esordio di Bedouine, che occupa la posizione numero uno – il 2017 ci ha regalato tanti bei dischi, molti dei quali, per forza di cose, sono rimasti fuori dalla seguente Top 8. Buona lettura e buon ascolto!
1 Bedouine – Bedouine (Spacebomb)
Azniv Korkejian, in arte Bedouine, nata ad Aleppo, in Siria, da genitori armeni, cresciuta in Arabia, ma ormai da tempo trasferitasi negli Stati Uniti, ha fatto innamorare di sé chiunque l’abbia ascoltata cantare. Tra questi, si devono citare almeno Guy Seyffert (già collaboratore di Beck, Norah Jones, Black Keys), che ha deciso di produrre artisticamente il suo disco d’esordio, e Matthew E. White, che non ci ha pensato due volte e l’ha pubblicato con la griffe della sua etichetta Spacebomb. La musica di Bedouine è fatta di elementi semplici: una chitarra, una melodia delicata e una voce malinconica. Tutto richiama gli anni 70, a partire dalla copertina che gioca dichiaratamente col vintage. I riferimenti più prossimi sono, non a caso, Joni Mitchell, Vashti Bunyan o, volendo chiamare in causa voci maschili, Leonard Cohen e Nick Drake. Quello di One of These Days, Back to You, Solitary Daughter, Heart Take Flight è un folk da focolare, fatto con uno stile magico e inconfondibile, capace di cantare versi come “I don’t want your pity, concern or scorn/I’m calmed by my lonesome, I feel right at home” come se fossero il lamento più cool del momento. C’è una sorta di distacco nel canto di Bedouine, che definisce il fascino riluttante della sua musica, ma che in alcuni momenti riesce a smuovere montagne, come nell’iniziale Nice and Quiet, nella dolce Back to You, o in Dusty Eyes, che, con un approccio vagamente pop, mette in mostra un’autenticità che dive come Lana Del Rey, per quanto possano sforzarsi, non riusciranno mai ad avvicinare. Bedouine è un album fatto come si faceva un tempo, una raccolta di canzoni di buon artigianato cantautorale, senza trucchi e anche senza peli sulla lingua, come dimostra la scarna Summer Cold, dedicata al dramma vissuto dal Paese d’origine dell’artista, per colpa, tra le altre cose, delle armi prodotte nel suo Paese d’adozione.
2 The War On Drugs – A Deeper Understanding (Atlantic)
Non solo Stranger Things. Il miglior revival degli anni 80 passa anche per la musica dei War On Drugs. Per il successore di Lost In The Dream, acclamato un po’ dappertutto come uno dei migliori dischi del 2014, Granduciel ha deciso di non stravolgere una formula fortunata, di incanalare la sua energia in pezzi ancora più lunghi e intensi, di soddisfare i fan e di garantirsi un’altra stagione di sold out in giro per il mondo. Non è una critica, anzi. A Deeper Understanding funziona in ogni dove, il rock è ancora una volta salvo. Gli intrecci tra tastiere e chitarre non sono mai stati così esplosivi, almeno da quando la E Street Band ha varcato la soglia del dolore di Born In The USA, ma Granduciel e i suoi vanno oltre, affidandosi ad sensazioni cosmiche, beat elettronici, riverberi. Ciò che di più spaventoso e, allo stesso tempo, magnifico i War On Drugs avevano raggiunto con Lost In The Dream era un’epica della tragicità. E’ la stessa epica a rendere ambiziose ballate come Knocked Down, Clean State e You Don’t Have To Go, ossessive ed estenuanti le corse elettriche di Nothing To Find e In Chains, inarginabile il singolo Holding On, nel cui ritornello i primi Arcade Fire e lo Springsteen più romantico sembrano divertirsi ad innescarsi a vicenda.
3 The National – Sleep Well Beast (4AD)
Matt Berninger scrive alcuni dei suoi testi migliori, lasciandosi ispirare dalla vita matrimoniale e continuando una peculiare analisi grammaticale dei sentimenti che l’ha reso uno dei più autorevoli cantori dell’amore ai tempi del terzo millennio. Tra bevute e separazioni, tra angosce e riflessioni politiche, Matt fa letteratura attingendo al repertorio del migliori, Carver e, soprattutto, Cheever, quest’ultimo citato, con un impressionante funambolismo metrico, in un verso di Carin At The Liquor Store (“I was walking around like I was the one who found dead John Cheever”). Anche musicalmente, Sleep Well Beast mostra i National al loro meglio: l’intrecciarsi delle chitarre, della sezione ritmica al solito solidissima e di innesti elettronici sempre più presenti rendono il disco dolente, amaro, ma allo stesso tempo suadente, pulsante di energia liberatoria. Potremmo parlare del vero e proprio disco della maturità della band, se non fossimo sicuri che la definizione non piacerebbe affatto a Berninger e soci.
4 Feist – Pleasure (Universal)
Partendo da quel piccolo oggetto misterioso che è la title-track, il disco si sviluppa seguendo traiettorie inedite e finora inesplorate da gran parte degli autori definiti folk. Pleasure è il disco meno cantautorale di Feist, è anzi quello con cui la sua musica tende a farsi cubista, grazie ad una sorprendente scomposizione della forma canzone nei suoi singoli elementi che vengono poi riassemblati partendo da un’ossatura ritmica maestosa e da una libertà creativa mai coltivata in modo così audace. Il disco vive felicemente dei suoi contrasti, che si risolvono pacificamente nel languore di ballate come Lost Dreams e Baby Be Simple o nel soul lunare di Young Up, o che, più spesso, non si risolvono affatto e portano a gemme di indefinibile modernità come The Wind, pasticcio di impronta jazz con lo zampino di Colin Stetson. A conti fatti, ad un’artista dalla personalità composita come Feist, dopo sei anni di silenzio, non si poteva chiedere nulla di meglio che questo affascinante colpo di teatro.
5 Dead Man Winter – Furnace (GNDWIRE / Thirty Tigers)
Un matrimonio che va in frantumi dopo dieci anni. Un luogo fino a ieri chiamato casa che improvvisamente non è più tuo, nonostante lì continuino a vivere tua moglie e i tuoi due figli. Una baita nel Minnesota del nord che diventa il tuo rifugio per un po’. La tua band lasciata da parte, una chitarra e un pugno di canzoni composte per alleviare il dolore, per tentare di disperdere le ceneri. E’ una storia già sentita, ma è una storia che musicalmente funziona ancora alla perfezione. Furnace, il secondo disco dei Dead Man Winter, solo moniker di Dave Simonett dei Trumpled By Turtles, parla di amore, di disperazione e di quel momento della vita in cui “I just break everything I touch”. Chitarre e organi spalancano le vie di una urticante emotività, ma è un piacere immergercisi dentro, sia che si tratti di un numero folk-rock d’alta scuola (Destroyer) sia che si tocchino le corde del cuore con la grazia di un Jeff Tweedy (Danger). Sul fronte Americana, Furnace è il capolavoro segreto del 2017.
6 Paolo Benvegnù – H3+ (Woodworm)
Con H3+ si chiude l’ideale trilogia iniziata con Hermann nel 2011 e proseguita con Earth Hotel nel 2014. Dei tre, H3+ è probabilmente il lavoro più ispirato, un viaggio interstellare che ha il suo apice in quella ballata di amore cosmico che è Astrobar Sinatra, il genere di canzone che ad altre latitudini potrebbe portare la firma dei Radiohead piuttosto che, esagerando, di David Bowie, e che in Italia solo Paolo Benvegnù può scrivere. H3+ è lo ione triatomico d’idrogeno, la molecola alla base dell’Universo, ciò che separa chimicamente una stella dall’altra: c’è in Italia qualcun altro che possa cantare credibilmente tutto ciò? Paolo si avventura in territori lontani anni luce dai riferimenti culturali sempre più bassi della nostra musica mercificata e talentizzata e realizza un disco di rarefazioni demoniache, di distanze incolmabili se non con la poesia. Gradino dopo gradino, H3+ diventa una teatrale scalata all’infinito, una personale space oddity che non può che concludersi con la meraviglia di No Drinks No Food, con un arrangiamento d’archi che scioglie ogni tensione, ogni inganno, ogni solitudine.
7 Nadia Reid – Preservation (Spunk)
Quello di Nadia è un talento limpido e indipendente e le note di questo secondo capitolo discografico colpiscono per la facilità con cui riescono a sollevare il velo da questioni intime e persino sgradevoli, a renderle riconoscibili, universali. L’artista che intona Arrow & The Aim o Richard sembra semplicemente un’amica che ha deciso di rivelare tutti i suoi segreti. Affidandosi a suadenti toni cameristici, pur con lievi aggiustamenti di tiro tra un brano all’altro, l’album nella sua interezza percorre il medesimo sentiero emozionale. La title-track e I Come Home To You sono ballate indie-soul da brividi, Reach My Destination è un puro folk da focolare, Ain’t Got You un disarmante slowcore. In queste pagine sonore di una giovinezza dolce e un po’ folle, c’è anche il tempo, in The Way It Goes, di strizzare l’occhio al pop e, mentre si ascolta, non si può fare a meno di immaginarne una versione a due voci con Rufus Wainwright, eroe musicale di Nadia.
8 John Murry – A Short History Of Decay (TV Records)
Forse nessuno ha raccontato in una canzone un’overdose da eroina meglio di John Murry. Il pezzo era Little Coloured Balloons, contenuto in The Graceless Age, disco disperato o forse insperato, uno dei migliori lavori di Americana dell’ultimo decennio. A Short History Of Decay – registrato con l’aiuto di Michael Timmins dei Cowboy Junkies e con lo zampino, tra gli altri, dell’ex signora Costello, Cait O’Riordan – non ha la stessa urgenza né quell’assurda leggerezza da sopravvissuto, eppure il miracolo di Murry si ripete di nuovo, attraverso pezzi necessari, dolenti, rigorosi, scritti e interpretati con un talento purissimo, che guarda alle lezioni di Bob Dylan, Neil Young, Jeff Tweedy, Mark Eitzel. Impossibile resistere alla tentazione di abbandonarsi al suo abisso dopo aver ascoltato brani come Silver And Lead, Miss Magdalene o Under A Darker Moon, solo per citare i migliori del mazzo.
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