Il piacere di scomparire nel nuovo disco degli Snow in Damascus!: l’intervista

Nati in Umbria nel 2011, gli Snow in Damascus! hanno esordito nel 2014 con “Dylar”, disco che, se anche non li ha fatti conoscere al grande pubblico, li ha fatti apprezzare da appassionati e addetti ai lavori per quella riuscita amalgama di suoni folk e tinte wave. Ora tornano con “Unconscious Oracle”, un disco più complesso, più ardito, e forse anche più riuscito. Pensosi e romantici, gli Snow in Damascus! suonano immaginando distese fluide, a volte ghiacciate dal freddo del nord, ma subito dopo scaldate da sentimenti e ritmi di più basse latitudini. Sono energici e letargici, minimali e cosmici, contemporanei e futuribili e in ognuno di questi contrasti si muovono con classe e raffinatezza tipiche di musicisti mai scontati. Ancora una volta dietro l’ispirazione per le nuove tracce c’è un riferimento letterario: niente di nuovo per una band che deve il suo nome ad una citazione da “Zeitoun” di Dave Eggers. Di questo e di tutti gli altri aspetti riguardanti “Unconscious Oracle” abbiamo parlato con il cantante e chitarrista Gianluca Franchi.

L
’album è un esempio di equilibrismo fra timbri e toni anche diversi, che sono però amalgamati in un unico flusso sonoro. Come siete arrivati a tale risultato?
Facendo le cose come avremmo preferito non farle! A parte gli scherzi, lavorare a un disco per noi è sempre, per forza di cose, un qualcosa di molto articolato, fosse anche solo per le difficoltà di trovare spazi e tempi per portare avanti il progetto – “equilibrismo” è una parola molto azzeccata anche in questo senso.
La conseguenza è che il processo diventa frammentato e lungo, cosa che per tanti motivi certamente preferiremmo cambiare, ma che ha anche i suoi aspetti positivi: da una parte ci costringe a lavorare spesso anche in maniera indipendente l’uno dall’altro, il che favorisce la confluenza dei diversi approcci senza che i contributi siano filtrati da un sistema di veti incrociati che è un rischio spesso presente per una band; dall’altra parte, la lunghezza del processo fa sì che le diverse sensibilità trovino il tempo di sedimentare, amalgamarsi nei nostri ascolti e di maturare in qualcosa che alla fine appartiene a tutti pur senza essere il disco che ognuno si sarebbe immaginato. Questo “esplorarci a vicenda” arrivando a un risultato in qualche modo inaspettato è forse una delle cose che più rendono vivo il progetto, quindi speriamo che il prossimo album lo possiamo concludere magari in due settimane di prese dirette, ma senza perdere ciò che di buono si porta dietro il lavoro di “lento artigianato” cui siamo stati costretti finora.
Qual è la principale differenza tra “Unconscious Oracle” e “Dylar”?
Quando abbiamo iniziato a lavorare a “Dylar”, gli Snow in Damascus! non erano ancora un gruppo: il bisogno e la voglia di coinvolgere i musicisti che hanno partecipato alla realizzazione di quell’album è stato proprio ciò che ha portato poi alla formazione della band vera e propria. I brani che lo compongono erano stati per lo più scritti senza sapere bene come e da chi sarebbero stati poi sviluppati, mentre in “Unconscious Oracle” abbiamo avuto la possibilità fin dall’inizio di percorrere direzioni che magari in “Dylar” avevamo appena imboccato, e certi elementi sono emersi in maniera più evidente, penso ad esempio al lavoro sull’elettronica o alla maggiore centralità assunta dalla voce di Giorgia.
Puoi raccontare come si è svolta la lavorazione a “Unconscious Oracle”? 
“Unconscious Oracle” è passato attraverso fasi anche molto diverse tra loro: in un primo periodo abbiamo avuto la possibilità di suonare insieme gli appunti scritti da me e cominciare a farci un’idea della forma che quelle idee avrebbero potuto prendere. Per alcune è avvenuto in maniera più naturale, e le abbiamo registrate presso il Jam Recordings di Michele Pazzaglia, che ci aveva già seguito in “Dylar”. 
Poi abbiamo fatto base nello studio che ci siamo creati “in casa” (letteralmente), dove abbiamo completato le registrazioni e prodotto praticamente tutto il disco fino al mix realizzato nel nuovo studio di Michele. A pensarci bene, questo disco è passato attraverso almeno tre traslochi – uno studio e due case – credo renda l’idea dell’ostinazione con cui abbiamo voluto portare in fondo il lavoro.
Il risultato finale è qualcosa che avevate progettato sin dallinizio o la trama musicale e poetica del disco si è sviluppata strada facendo?
C’erano alcune idee di fondo, quantomeno alcuni spunti che sentivamo tutti l’interesse di approfondire, ma sicuramente non si può parlare di direttrici troppo marcate. Di nuovo, la tempistica con cui si è sviluppato l’album è determinante da questo punto di vista: in tre anni le attenzioni e le sensibilità si muovono, e quando un disco è finito ci trovi dentro una serie di cose, di pezzi di vita se vuoi, che se si provassero a stringere in un concept risulterebbero in qualcosa di probabilmente forzato e sclerotico.
Il tema del disco è ispirato al libro “Larte di scomparire” di Pierre Zaoui, è così?
Non so se si possa parlare di ispirazione vera e propria: di sicuro c’è che diversi di noi l’hanno letto all’inizio del lavoro sull’album, e ha toccato corde che abbiamo scoperto comuni, è stato quindi naturale in diverse fasi della produzione richiamarci un po’ alle idee espresse in quel libro. Penso che alla fine ci sia finito dentro in maniera indiretta, ma profonda; la “discrezione” esplorata da Zaoui ha sicuramente a che fare con l’altro tema che emerge nel disco, cioè il binomio vista/cecità, la questione di quale sguardo porre sul mondo. In un momento in cui il guardare e il farsi guardare stanno diventando elementi così centrali e invasivi nel nostro modo di vivere, l’esercizio della discrezione parte forse anche dal sospendere quest’ossessione per la visione: non a caso il pezzo con cui il disco si chiude è “Make Me Blind”.
Quanto è praticabile per un musicista / per un artista il vivere con discrezione?
Domanda interessantissima, che coglie nel vivo un dubbio che è stato cruciale durante il lavoro su “Unconscious Oracle” al punto da metterne a rischio la realizzazione. E’ vero che l’idea di “sospendersi”, il piacere di scomparire nel mondo, è per certi versi quasi paradossale per un artista, che in parte è mosso anche dal desiderio di mostrarsi al mondo, e non è facile far convivere le due spinte: per noi c’è stato un momento in cui ci siamo chiesti seriamente se fosse veramente necessario aggiungersi a questa pioggia quotidiana di suoni, di produzioni, di espressioni di sé, o se non fosse stato meglio scegliere il silenzio, l’ascolto, e spingere la discrezione fino all’assenza, alla negazione dell’espressione. 
È peraltro un interrogativo che attraversa molta arte e letteratura, da Salinger a Pynchon a Juan Rulfo – c’è un piccolo libro molto interessante in proposito, “Bartleby e compagnia” di Enrique Vila-Matas, che racconta di queste scelte di sottrazione. Zaoui stesso dice però che la discrezione è per natura un’esperienza temporanea, si può magari coltivare attenzione ad essa, più che interpretarla come una regola di vita o una scelta rigorosa da portare alle estreme conseguenze.
Anche il precedente album era ispirato ad una lettura, in quel caso il romanzo “Rumore bianco” di Don DeLillo. Che tipo di fascinazione esercita su di voi la pagina scritta?
Credo che il rapporto con i libri sia diverso per ognuno di noi, è impossibile parlare per tutti. Forse gioca banalmente un ruolo anche la fascinazione “degli opposti”, nella fattispecie quella esercitata da un’arte che è per natura silenziosa su chi fa dei suoni la propria arte.
A parte questo, la lettura crea necessariamente, forse anche perché si muove di solito su un tempo abbastanza dilatato rispetto a un’opera musicale o un film, una condizione di ascolto anche interiore che permette ai libri (almeno quelli fatti bene, s’intende) di scriverti dentro, in qualche modo, e credo che questo “creare solchi” sia qualcosa che noi SiD! cerchiamo anche nella musica. 
Come si pongono gli Snow in Damascus rispetto alla scena musicale italiana? Avete rapporti di amicizia/stima con altre band? Ci sono nomi o scene che rappresentano un riferimento per voi?
Viviamo in provincia, piuttosto lontani dalle scene. Non è necessariamente un male: ti costringe a costruirti un percorso che non è condizionato da appartenenze particolari, per esempio. A parte le amicizie più dirette (Ciro, il nostro batterista, è anche parte del gruppo di Paolo Benvegnù), di cose belle e realtà che stimiamo ce ne sono molte, e in genere hanno in comune un lavoro forte sulla propria identità, anche quando molto distante stilisticamente dalla nostra: in Italia pensiamo a gente come i C’mon Tigre e i Campos, o vicinissimi a noi gruppi come Voldo e Lenz.
In generale, è interessante fare musica in questa epoca in cui tutto è frammentato e moltiplicato: può essere frustrante per chi cerca visibilità a tutti i costi e tramite una scena può pensare di coagulare attenzione, ma questa moltitudine di piccole realtà a volte sconnesse è anche occasione di scoprire affinità e stimoli inaspettati. E’ anche questa una dimensione della discrezione, se vuoi, uno scenario in cui essere musicisti “in disparte” può essere perfettamente normale: uno dei nostri artisti preferiti, per dire, è DM Stith, che vanta, oltre a lavori egregi, collaborazioni prestigiose (per citarne una, con Sufjan Stevens), ed è uno che fatica a suonare a New York e nei social ha meno “like” di noi. 
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