Best of 2018: i dischi dell’anno del Mascalzone
Come da tradizione, ecco gli otto dischi dell’anno del Mascalzone. Tra vecchie glorie che hanno dimostrato uno scintillante stato di forma (Spiritualized, Low), progetti solisti di alcuni dei nostri vocalist preferiti (Stuart Staples, Jeff Tweedy) e una giovanissima promessa (Lucy Dacus), non abbiamo la pretesa di aver selezionato i lavori migliori ma quelli che abbiamo ascoltato di più. Ne mancano altri che per motivi di spazio sono rimasti fuori ma che meritano almeno una menzione: “In the Rainbow Rain” degli Okkervil River, “Joy as an Act of Resistance” degli Idles, “Minus” di Daniel Blumberg, “Two, Geography” degli Any Other, “Wanderer” di Cat Power, “Twin Fantasy” dei Car Seat Headrest, “Haeven and Earth” di Kamasi Washington e la colonna sonora di “Suspiria” firmata da Thom Yorke. Buon riepilogo e naturalmente buon ascolto!
Lucy Dacus – Historian (Matador)
Il sophomore album di Lucy Dacus arriva dopo un primo album che ha fatto parlare egregiamente di lei, la partecipazione ai principali festival dell’estate 2016 e il contratto con la Matador, che adesso punta sulla sua musica in modo deciso. Lo si capisce subito inserendo il disco nel lettore. Strumentazione più ricca, suono pieno e vigoroso. E poi una tavolozza sentimentale ampliata, che comprende anche una canzone d’amor perduto come Night Shift, “la prima e unica breakup song che abbia mai scritto” a sentire Lucy, certo cantata con attitudine slacker e un’ironia ben incapsulata in versi di sghembo giovanilismo, come i due iniziali “the first time I tasted somebody else’s spit/I had a coughing fit”: difficile non innamorarsi di una canzone così. Historian percorre il doppio binario del cantautorato alt-country e dell’indie-rock tipicamente nineties, con le chitarre spesso chiamate a mettersi in primo piano e una sezione ritmica che pesta senza sembrare invadente – merito dell’equilibro in cabina di regia di Collin Pastore. E’ un disco in cui aleggia un’indolenza che farebbe invidia a Courtney Barnett; un disco dotato di umanità e candore, con un’ammirabile visione d’insieme. Pezzi come Nonbeliever, The Shell, Yours And Mine, Pillar Of Truth mostrano un’autrice già matura (nonostante abbia appena 23 anni) e un’interprete capace di far sorridere e tremare con la stessa nonchalance.
Stuart Staples – Arrhythmia (City Slang)
Una pausa dai Tindersticks Stuart Staples, che della band di Nottingham è l’inconfondibile voce, se la prende col contagocce. L’ultima volta che aveva firmato un album col suo nome era il 2006, l’album in questione era Leaving Songs, una raccolta di ballate molto più canoniche e cantautorali rispetto alla musica cinematica dei Tindersticks. Stavolta l’approccio è completamente diverso. Arrhythmia contiene solo 4 tracce, l’ultima delle quali dura ben 30 minuti. Vien da sé che l’aspetto cantautorale è temporaneamente messo in secondo piano a favore di un disegno musicale più libero, che tiene in debita considerazione suggestioni e sogni, allucinazioni e paure, sentimenti oscuri che faticherebbero ad accomodarsi dentro la classica forma canzone. La traccia più simile ad una canzone è l’iniziale A New Real, i restanti 50 minuti sconfinano nel jazz e in un minimalismo noir che incanta ed emoziona, a patto di accettare la sua promessa di obliqua bellezza. Chi preferisce tutto ciò che di alieno al rock c’è negli spartiti dei Tindersticks troverà soddisfazione dall’anarchia espressiva di Step Into the Grey, chi ha amato Nénette et Boni, la migliore delle loro colonne sonore, potrà rievocarne la decadenza immergendosi nei suoni dilatati di Memories of Love.
Jeff Tweedy – Warm (Dbpm Records)
Il Jeff Tweedy confidenziale è solo uno dei diversi Jeff Tweedy possibili ma, come tutti gli altri, è un autore e un performer di stellare bravura e ad ulteriore dimostrazione arriva Warm, il primo album vero e proprio firmato col suo nome. E’ vero che l’anno scorso c’era stato Together At Last, che raccoglieva però vecchi brani dei Wilco rifatti in chiave acustica, mentre nel 2014 aveva visto la luce Sukierae dei Tweedy, progetto condiviso da Jeff con suo figlio Spencer, ma Warm è un’altra cosa: è una raccolta, breve e fulminante, di undici brani che sono quanto di più intimo, profondo e sincero il musicista di Chicago abbia registrato nell’ultimo lustro. La poetica di Jeff è in primo piano con la sua innocenza sbilenca e i suoi cambi d’umore, sempre in bilico tra dignitosa depressione e arrendevole spavalderia. E’ in ogni caso su un ossimoro che si regge l’ecosistema di Jeff Tweedy, artista capace come pochi di suturare insieme i poli opposti dell’essere umano, di farli convivere in composizioni che somigliano a carezze, sia che suonino slowcore come How Hard It Is For A Desert To Die, sia che recuperino la rarefazione tipica di Yankee Hotel Foxtrot come From Far Away, sia che assumano un andamento velvetiano come The Red Brick.
Low – Double Negative (Sub Pop)
Nell’abissale distanza che separa il penultimo The Invisible Way dal nuovo Double Negative sta tutta la grandezza del trio di Duluth che a dispetto dei venticinque anni di carriera non ha alcuna intenzione di cedere ad una musica che non sia frutto di un’indomita e folle ricerca sonora. Certo, così in avanti nella loro spinta innovatrice (e pessimista) Alan Sparhawk e soci non si erano mai spinti. Double Negative è un disco di atmosfere apocalittiche, di musica indiscutibilmente post (-rock, -indie, -slowcore, -elettronica, o quello che vi pare), disorientante, lacerante e futurista. Ostico come nessun altro lavoro dei Low ai primi ascolti, inizia pian piano a scavare un percorso interiore in chi ha l’ardire di andare avanti e regala perle oscure come Fly e Always Up o imperdibili cavalcate nell’incubo come Dancing and Blood e Rome (Always in the Dark). Tante giovani leve del cosiddetto panorama indipendente dovrebbero partire da qui per pretendere di più da se stessi e dalla propria arte: Double Negative è proprio questo, un libro di testo per chi si è posto l’obiettivo di non ammorbidirsi mai.
Villagers – The Art of Pretending to Swim (Domino)
Per il quarto lavoro dei suoi Villagers, Conor O’Brien dimentica l’opera di introspezione ed essenzialità del precedente Darling Arithmetic (2015) e recupera il gusto per gli arrangiamenti già messo in mostra in Awayland (2013). Ne viene fuori un caleidoscopio di cromie musicali che, complice la maturità in fase di produzione di Conor, beneficia di scelte coraggiose e ampliano di un bel tot lo spettro d’azione dei Villagers, che qua e là arrivano a muoversi addirittura dalle parti del soul o di un raffinato r’n’b. A rimanere immutata in questi dieci anni di carriera è la capacità di Conor di scrivere pezzi capaci di affrontare temi profondi con invidiabile leggerezza. In The Art Of Pretending To Swim ce ne sono diversi, a partire da Fool, il brano preferito dallo stesso artista, una ballata per cuori infranti che non sanno smettere di sanguinare ma almeno lo fanno col sorriso. Sulla stessa lunghezza d’onda è A Trick Of The Light, una suadente digressione nel pop che non rinuncia all’autoanalisi («it’s time that I let go of/things I can’t control»). E poi Hold Me Down, Sweet Saviour, Ada, brani che confermano Conor come uno dei migliori autori della sua generazione.
Spiritualized – And Nothing Hurt (Bella Union)
C’è chi sostiene che Jason Pierce scriva sempre la stessa canzone. Se la canzone è A Perfect Miracle, quella che apre il nuovo album And Nothing Hurt, o I’m Your Man, quella che viene subito dopo, o ancora Sail On Through, quella che chiude la scaletta, non si può che essere contenti. La verità è che l’ottavo lavoro degli Spiritualized è una grande opera rock, probabilmente il miglior disco della band inglese dopo il capolavoro tossico del 1997, Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space, uno dei capisaldi del rock britannico anni Novanta. And Nothing Hurt è sostanzialmente un’opera del solo Pearce, che passato attraverso alcuni problemi di produzione, ha deciso di fare da sé, nell’isolamento completo del suo appartamento londinese, suonando tutto il disco, strumento per strumento. Se è vero che la sofferenza e la frustrazione sono sempre stati il lasciapassare per raggiungere la bellezza con la sua musica e che il suo sistema nervoso gli ha presentato il conto già da un pezzo, stavolta le incertezze di una produzione autarchica hanno fiaccato Pearce al punto da fargli pensare And Nothing Hurt come l’ultimo album della carriera quasi trentennale degli Spiritualized. Che sia o meno un disco di commiato, le sue nove tracce abbondano della meraviglia e dell’oblio tipici della musica di Pierce e brillano di una qualche forma di definitività.
Scott Matthew – Ode to Others (Glitterhouse)
A dieci anni dal suo esordio, Scott Matthew è rimasto un piccolo culto, un cantante per anime perse e addolorate, raffinate e sensibili. Forse perché non si è mai arreso all’idea di realizzare dischi che non fossero ritratti autentici e realistici dei diversi momenti della propria vita, perché non si è mai tirato indietro quando si trattava di mostrare le proprie ferite (con il precedente This Here Defeat ha raschiato il fondo del barile del mal d’amore). In epoca di fake news e di edulcorazione del dolore, un approccio decisamente fuori moda. Ode to Others non fa eccezione, anche se la prospettiva si vorrebbe mutata. Il vero elemento di novità non si trova nella tessitura musicale, che ricalca il canone matthewiano in modo fedele, ma nei temi trattati dalle liriche che, come si intuisce dal titolo, sono rivolte al di fuori di sé. Ecco che Where I Come From è dedicata al padre di Scott, Cease and Desist a suo zio, Not Just Another Year ad un amico speciale. C’è soprattutto The Wish, miglior brano del disco, che racconta la strage di Orlando del 2016 in cui rimasero uccise 49 persone con un commovente intreccio di chitarra acustica e piano e parole di pura impotenza.
Beach House – 7 (Sub Pop / Bella Union)
Il duo di Baltimora composto da Victoria Legrand e Alex Scally giunge con il settimo album, intitolato semplicemente 7, a definire una perfetta sintesi del proprio suono, mescolando decadenza e onirismo in un cortocircuito spazio-temporale che evoca un sogno shoegaze bagnato da suggestioni psych e ovviamente pop. Gli undici nuovi brani propongono un ininterrotto viaggio dentro e fuori di sé, tra piaceri sospesi e soltanto accarezzati e fughe in una tristezza mai soffocante. I toni più cupi di Black Car e Last Ride lasciano la porta aperta allo sciogliersi dei sensi di Girl of the Year (dedicata a Edie Sedgwick) e all’innamoramento sghembo di Lemon Glow. La malinconia, vera protagonista della musica dei Beach House, raggiunge vette incorporee in Drunk in LA e riesce ad assumere un andamento marziale (vagamente) alla Nico in Dive. 7 è un disco che somiglia ad un lungo piano sequenza dentro la più romantica delle nostre giornate storte.
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